Orto Sinergico

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martedì 19 giugno 2012

IMMAGINI A KM ZERO E UN'OPINIONE CONTRARIA.

IO CONSUMO
A KM ZERO!
E TU? 







Tribalismo e localismo alimentare

domenica, aprile 15, 2012 di Pierre Desrochers tradotto da Luigi Pirri
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Qualche anno fa abbiamo partecipato ad una conferenza in cui un distinto oratore accademico non solo decantava le lodi del “locavorismo” (la teoria per cui aumentare, localmente, la parte di produzione alimentare destinata al consumo aiuterebbe a risanare il pianeta, creare lavoro, aumentare la  sicurezza alimentare e la salute fisica, mentale e spirituale della società), ma insultava i Giapponesi, additandoli come i maggiori “parassiti” della Terra, poiché grandi importatori annuali di cibo (quasi il 60% dell’apporto calorico totale) [1].
Avevamo vagamente sentito parlare della mania del cibo locale tempo addietro, ma in quel momento la questione divenne personale, giacché uno di noi era nato e cresciuto nella più grande regione di Tokyo. Vero, i suoi compatrioti e avi costruirono la loro casa su poche e affollate isole, il cui potenziale agricolo era soggetto a disastri naturali. Conseguentemente, non avevano scelta se non quella di contare sugli stranieri per ottenere una dieta decente. Infatti, se fossero tornati all’autosufficienza insulare dei loro avi, i Giapponesi odierni avrebbero dovuto cavarsela con piccole quantità di riso, patate, patate dolci, grano e verdure [2]. Come i disperati contadini che, durante la seconda Guerra Mondiale, iniziarono a uccidere delfini, come denunciato nel documentario The Cove, essi avrebbero dovuto sfruttare sempre più intensamente le loro scorte costiere di pesci selvatici, frutti di mare e mammiferi marini [3]. Fortunatamente per loro e l’ecosistema circostante, comunque, nell’ultimo secolo e mezzo ai Giapponesi fu concessa l’opportunità di specializzarsi in altri tipi di attività economiche e di commerciare i loro prodotti con del cibo cresciuto altrove e in migliori condizioni; come risultato, gli standard di vita crebbero in tutto il mondo e gli abitanti dell’arcipelago nipponico godettero di una molto più abbondante, diversificata e  conveniente dieta rispetto ai loro affamati avi.
Al tempo in cui abbiamo pubblicato una risposta al movimento km zero, questa, per quello che sappiamo, rimane la più ampia fino ad oggi [4] (abbiamo ampliato grandemente la nostra confutazione del locavorismo in un libro di prossima uscita) [5]. La strada per l’inferno della sicurezza alimentare, economica, ambientale e agricola è lastricata di piatti locali freschi e nutrienti. Per la nostra gioia, il pezzo ha ricevuto un’importante copertura nei media Canadesi. Non sorprendentemente però, vari (e spesso personali) insulti hanno iniziato a riempire velocemente le nostre email. Basandoci sul volume di corrispondenza offensiva ricevuta, a volte crediamo che mettere in dubbio l’esistenza di Dio in una riunione religiosa riceverebbe un trattamento più pacato e sobrio! Il defunto romanziere Michael Crichton descrisse l’ambientalismo come la “religione degli atei urbani” [6], ma il locavorismo è ora una delle sue denominazioni più diffuse.
Senza sorpresa alcuna, la maggior parte delle caratteristiche comuni degli attivisti di questi movimento erano il loro disprezzo istintivo delle grandi industrie e della ricerca del profitto, assieme ad un forte attaccamento emotivo per i loro vicini, i quali sono considerati minacciati dai prodotti stranieri e dai conglomerati agro alimentari internazionali. Un po’ perplessi da queste reazioni viscerali, abbiamo provato a dare un senso alla rabbia e all’odio verso il commercio e la catena globale di offerta alimentare dei locavoristi. Di seguito un paio di cose da ricordare che abbiamo imparato lungo la via.
Voglia di comunità ed eguaglianza – e  perché non dovremmo seguirle [7]
Circa il 90% degli esseri umani che hanno messo piede sul pianeta appartenevano a gruppi di procacciamento alimentare non territoriali, ma frequentemente in conflitto l’uno con l’altro. Questa propensione allo scontro rimase, a quanto pare, prevalente anche nelle prime comunità agricole. In un mondo che rispecchia da vicino quello di Meerkat Manor [8], il guadagno di una tribù o gruppo arrivava a spese di un altro, ciò che gli scienziati sociali odierni chiamano “gioco a somma zero”. Una presunta eredità culturale di questo stile di vita è l’innato favore umano moderno per gli appartenenti alla propria comunità piuttosto che gli stranieri; un’altra è costituita dal fatto che la maggior parte di noi ancora intende, spontaneamente, la creazione e la distribuzione di ricchezza in termini di un gioco a somma zero nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese dei poveri. Una breve versione dell’argomento può essere riassunta come segue. In un gruppo di caccia e raccolta, le interazioni sono di tre tipi: condivisione comunitaria, nella quale ogni membro ha diritto a una quota di ciò che è disponibile; scala gerarchica, in cui le persone poste ai gradi gerarchicamente più bassi devono fare riferimento ai superiori; e relazioni egualitarie, attraverso cui le persone operano secondo un intuitivo senso di giustizia ed equilibrio (un esempio attuale sarebbe la precedenza in un incrocio a quattro vie). Inutile dire che la maggior parte degli esseri umani ha sempre avuto in antipatia le scale gerarchiche poiché vi sono sempre pochi individui al vertice di qualsiasi gerarchia. La naturale inclinazione della maggioranza sarebbe, quindi, sempre quella di favorire una forma di (più o meno) “giusta” redistribuzione di risorse scarse, una propensione che è stata lungamente al centro di innumerevoli politiche, filosofie, religioni e progetti di vita associata.
Un problema sorge, tuttavia, quando una tale prospettiva conduce le persone a credere che una più recente forma di interazione sociale, la transazione volontaria di mercato, sia un gioco a somma zero nel quale alcune persone accumulano “potere economico” e profitti rifiutandosi di pagare il “giusto prezzo” per il lavoro altrui. Qualsiasi beneficio l’economia possa creare, sostengono i critici, questo è sempre concentrato nelle mani indifferenti di pochi individui, alle spese di tutti gli altri, delle minoranze, della comunità e dell’ambiente [9]. Visto in questa luce, effettivamente ci si sente costretti a rimpiazzare il mercato con alternative sociali nelle quali le risorse disponibili siano redistribuite “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Certo, parecchie corporations e uomini d’affari sono particolarmente abili nell’usare l’arena politica per assicurarsi sussidi o protezioni da competitors più efficienti, ma una prospettiva a somma zero sulla vita commerciale disconosce profondamente tre benefici unici dello scambio volontario.
Primo; due parti commerciano ciascuna con l’altra poiché, secondo i loro costi e benefici soggettivi, entrambi guadagnano dallo scambio. Se non fosse così, non vi sarebbero transazioni volontarie. Per esempio, il fatto che due individui abbiano scambiato una determinata quantità di bacche essiccate e un pezzo di carne affumicata ci dice che ognuno valutava gli oggetti ricevuti nello scambio più degli oggetti donati. Gli scambi volontari sono quindi sempre “win – win” o benefici per entrambe le parti, nonostante il tutto possa apparire ingiusto agli occhi altrui.
Secondo, al contrario della condivisione comunitaria che sembra richiamare più alte motivazioni, le transazioni di mercato sono direttamente basate sul proprio interesse. Come l’economista del diciottesimo secolo Adam Smith notò: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e mai parliamo loro dei nostri bisogni ma dei loro vantaggi”. Gli scambi volontari indicano ciò che è ritenuto prezioso dagli altri. In altre parole, il commercio motivato dal proprio interesse inevitabilmente implica reciproco beneficio egoistico.
Ultimo, i comportamenti commerciali si reggono, alla fine, sulla ragionevole aspettativa di godere dei frutti del proprio lavoro. Qui vorremmo suggerire che le lezioni impartite dalla storia sono chiare: non c’è alternativa ai diritti di proprietà e alla libertà commerciale, se vogliamo promuovere una società orientata al futuro e azioni (come l’imprenditorialità, i risparmi e gli investimenti di lungo termine) per le quali gli individui si accollano rischi, guadagnano profitti e talvolta soffrono conseguenze negative. Premiando gli individui che fanno uso di risorse scarse in modo efficiente e punendo quelli che non lo fanno, le economie di mercato promuovono innovazione e sviluppo economico.
Altra inevitabile caratteristica delle economie di mercato è che, a causa di talenti differenti, ambizioni maggiori, etica del lavoro più forte, carriere più lucrative o semplicemente fortuna, alcuni individui accumuleranno sempre maggiore ricchezza rispetto agli altri, un risultato ostico per le persone che hanno riposto maggiore impegno nell’uguaglianza piuttosto che nella creazione di ricchezza e che non sono mosse dal vecchio detto “l’alta marea solleva tutte le barche”. Come Winston Churchill osservò, il “vizio intrinseco del capitalismo è la divisione ineguale delle benedizioni; la virtù intrinseca del socialismo è l’eguale condivisione della miseria” [10].Personalmente, il fatto che i più ricchi possano diventare più ricchi ancora non ci preoccupa, dato che anche il povero diventa più ricco in termini assoluti e la torta economica cresce. E l’evidenza ci dice questo. In definitiva, viviamo in un mondo di creazione di ricchezza, non di transazioni a somma zero, qualcosa che noi speriamo venga anche compreso dagli attivisti del km zero.
Commercio e umanità
Alcune prove suggeriscono che molti primati scambiano servizi (ad esempio prestazioni materiali in cambio della protezione di individui più forti), ma gli umani sono l’unica specie che scambia beni durevoli. Molta discussione ancora circonda le origini di ciò che Adam Smith descriveva come la propensione a “trafficare, barattare e scambiare una cosa per un’altra” [11], ma col tempo divenne non solo qualcosa che ognuno di noi può acquisire ad un’età relativamente precoce senza sforzi consapevoli, ma anche un modo di definirci. Lo scrittore del diciannovesimo secolo Jules Renard disse a proposito: “Finalmente so cosa distingue l’uomo dalle altre bestie: le preoccupazioni finanziarie”[12]. Non può quindi esserci “legge della giungla” nel regno commerciale, non essendo il commercio presente altrove in natura.
Qualunque interazione singola o reciproca o combinazione di fattori abbia portato all’emersione del mercato, esso è tra noi da almeno 150.000 anni e, fin dagli inizi, si sviluppò fra e oltre “comunità locali”, residenti in territori adiacenti, con notevoli contrasti di flora, fauna e risorse minerali. Per esempio gli individui che sbarcavano il lunario lungo le coste, raccogliendo frutti di mare e altre risorse marine, avevano sempre un forte incentivo, anche se essi non praticavano commercio nei loro gruppi, a variare la loro dieta e a completare la loro dotazione di risorse, scambiando alcuni dei frutti del loro lavoro per altri prodotti da persone che cacciavano e raccoglievano cose diverse nell’entroterra.
Una volta emerso il commercio, gli umani avevano a disposizione due opzioni per interagire l’uno con l’altro. La prima era continuare a combattere, dentro o fuori il gruppo di appartenenza, al fine di proteggere o espandere il proprio status e i propri possedimenti. Vero e proprio furto di beni materiali, schiavitù, tributi o “protezione” per un prezzo, attività politiche e guerre ultranazionali si sarebbero quindi aggiunte ai modi di vivere che sono caratterizzati dal coinvolgimento esclusivo, nella categoria dei vincitori, di persone che banchettano sulla vittoria e altri presenti sul menu. Al contrario, il commercio rese possibile per alcuni individui la specializzazione nella produzione e nello scambio reciprocamente vantaggioso di nuova ricchezza materiale, un processo che, attraverso azioni ripetute, favoriva lo sviluppo di fiducia reciproca, cioè una valutazione fatta da entrambe le parti in base alla quale viene ritenuto non incauto rendersi vulnerabili alle altre parti per la prospettiva di potenziali guadagni. Nelle parole del filosofo del diciottesimo secolo Montesquieu: “Il commercio è una cura per i più distruttivi pregiudizi; è quasi una regola generale che, ovunque troviamo maniere garbate, lì il commercio fiorisce; e ovunque vi è commercio, là incontriamo maniere garbate… La pace è l’effetto naturale del commercio” [13]. Nelle immortali parole di un altro pensatore francese dell’epoca, Voltaire: “Andate alla Borsa di Londra, luogo venerabile più di molti tribunali, e vedrete rappresentanti di tutte le nazioni riuniti per il profitto della specie. Là l’Ebreo, il Maomettano e il Cristiano trattano l’uno con l’altro come se appartenessero alla stessa religione, riservando l’epiteto di a chi finisce in bancarotta” [14]
La nostra capacità di negoziare pacificamente prodotti cresciuti o creati in terre lontane con perfetti sconosciuti è probabilmente la nostra più grande conquista culturale. Conseguentemente, noi viviamo incomparabilmente più a lungo e meglio rispetto ai nostri avi e, secondo lo psicologo Steven Pinker, viviamo nell’era più pacifica di tutta la storia umana [15]. Noi ci auguriamo, sinceramente, che i locavoristi imparino a essere grati per questo e per tutti i miracoli quotidiani frutto della catena globale dell’offerta alimentare.
Articolo di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu per Mises Canada
Traduzione di Luigi Pirri

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